CARNAGE

Recensione del 10 gennaio 2020 di Charlie Darc

Regia: Roman Polansky - GB 2011.

“Carnage”, o della simmetria, di quella ricerca disperata dell’equilibrio che pure affoga nel caos della vita quotidiana. Spieghiamoci meglio, magari contestualizzando un po’. L’ultima opera di Polanski è solidamente strutturata in tre parti: introduzione, sezione centrale ed epilogo. Il primo e l’ultimo, di breve durata, sono esterni animati da gruppi di ragazzini (che osserviamo da lontano) e corredati (dal punto di vista sonoro) solo dalla potente musica di Alexandre Desplat. Tutto viene invertito nella seconda parte, ossia il “film in sé”: la colonna sonora scompare e il nostro punto di vista diventa invadente. Addirittura si parte “ex abrupto” con un dialogo (già iniziato) e con un primo piano, che si allarga per mostrarci i nostri (pochi) protagonisti. Sono solo quattro, divisi in due coppie: Alan (Christoph Waltz) e Nancy (Kate Winslet) Cowan, di evidente natura borghese, Michael (John C. Reilly) e Penelope (Jodie Foster) Longstreet, che borghesi sono diventati. Subito capiamo il collegamento con la scena iniziale: i due ragazzini coinvolti in un battibecco conclusosi violentemente sono i loro figli.


Per tutto il resto del film seguiremo “in diretta” (senza ellissi temporali) il lungo dialogo/discussione, li scruteremo muoversi tra le mura dell’appartamento come degli animali in gabbia, preoccupandoci di analizzare scientificamente e psicologicamente le loro azioni e le loro parole. Queste ultime non sono sottoposte ad un lavoro di scelta, ma ci giungono in “versione integrale”, mediate solo dalla macchina da presa. Questa sì svolge una selezione, altrimenti – è chiaro – saremmo a teatro. Ed ecco che Polanski guarda all’equilibrio formale, frammentando i quattro personaggi in gruppi di n persone tra loro in sintonia o in opposizione, e replicando i loro corpi negli specchi dell’appartamento. L’equilibrio contenutistico è anch’esso impeccabile, ma solo all’inizio: le coppie sono lontane per la loro appartenenza sociale, alla quale aderiscono perfettamente, stereotipi compresi: Alan è un avvocato che difende una società farmaceutica produttrice di medicine dannose per i pazienti, ma ciò nonostante Nancy continua a rimanere scandalizzata dall’abbandono di un criceto da parte di Michael; quest’ultimo invece smercia “innocui” articoli casalinghi e sua moglie Penelope è ben più impegnata politicamente e socialmente (ha “addirittura” scritto un libro). Come se non bastasse, è stato il figlio dei Cowan a ferire quello dei Longstreet: subito si delineano le figure di “carnefici” (cinici e superficiali) e di “vittime” (innocue e buoniste).


E’ infine interessante notare come gli attori impersonino ancora una volta i loro personaggi di sempre: ad esempio Waltz è arrogante e sfacciato come al solito; oppure Reilly, con la sua faccia da bonaccione, cerca di mediare e di calmare i bollenti spiriti degli altri, armandosi di cortesia e pazienza. Di nuovo la situazione si capovolge quando Nancy vomita. Dopo di lei, anche gli altri “buttano fuori” la loro vera natura, giungendo a dei risultati diametralmente opposti rispetto all’inizio. Le innocenti creature si fanno temibili mostri (è il caso di Penelope), figure statuarie crollano (Alan), e tra vendette, frecciate, coppie che “scoppiano”, ubriacature e quant’altro non ci sono più il Bene e il Male, ma solo infine sfumature (scrutabili da alcuni dialoghi al limite del filosofico). Ma tutto questo lo lascio scoprire a voi, miei cari spettatori, così come vi lascio l’interpretazione del finale che, facendoci finalmente prendere una “boccata d’aria”, sembra lasciarci per un po’ nel paradiso dell’infanzia, prima di rigettarci (una volta che le luci si accendono) nel nostro mondo complicato di adolescenti e adulti.



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