LA CHIAVE DI SARA

Recensione del 10 gennaio 2020 di Jechenoz, DP

Regia: Gilles Paquet-Brenner - Francia 2010.

A Parigi, nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 1942, la polizia del governo collaborazionista, coordinata dalle SS, rastrellò 13.152 ebrei, di cui 5.919 donne e 4.115 bambini. Migliaia di famiglie vennero richiuse per giorni nel Vélodrome d'Hiver in condizioni disumane, senza acqua ne cibo, e successivamente trasferite nei campi di transito di Drancy, Pithiviers e Beaune-la-Rolande. I bambini vennero separati dai loro genitori, consegnati agli occupanti tedeschi che li deportarono ad Auschwitz dove furono gasati e bruciati nei forni crematori. Pochissimi di loro si salvarono da questa fine. La giornalista statunitense Julia Jarmond, trapiantata da vent’anni a Parigi e moglie di un architetto francese, dovendo scrivere un articolo sul sessantesimo anniversario del drammatico episodio del Vel d'Hiv, si imbatte in una storia che cambierà per sempre la sua vita. L’alloggio nel quartiere del Marais in cui Julia sta per trasferirsi col marito e la figlia Zoe, nel 1942 era abitato dalla famiglia della piccola Sara Starzynski e del fratellino Michel. La famiglia Starzynski, dopo i rastrellamenti, è finita nei campi di sterminio ma i due bambini non figurano tra le vittime dell’olocausto: cos’è successo per davvero in quei drammatici giorni a Sara e a Michel? Julia si appassiona alla storia e ne resta emotivamente coinvolta quando scopre gli aspetti che collegano quella tragedia alla sua famiglia. Incinta e delusa da un marito che non accetta la nuova gravidanza, la sua ricerca la porterà a Firenze e a New York e a trovare una nuova ragione di vita. In parallelo il film segue la fuga di Sara (la bravissima Mélusine Mayance) da Beaune-la-Rolande. Aiutata da una coppia di contadini, la bambina ritornerà a Parigi con la sua preziosa ma ormai inutile chiave


La storia di quello che fu uno dei più vergognosi episodi della storia francese è già arrivata lo scorso anno sugli schermi con Vento di primavera della regista Rose Bosch, in programma in questa stagione a Suburbana. Ne riparla ora il trentasettenne Gilles Paquet-Brenner con un altro bel film francese, La chiave di Sara, un racconto a due voci tra passato e presente tratto dal libro omonimo della scrittrice franco-americana Tatiana de Rosnay. Libro e film mantengono una giusta distanza dalla retorica e commuovono senza scivolare nel lacrimevole. Oltre al tragico racconto della storia di Sara, attraverso la testarda ricerca della verità di Julia, si getta uno sguardo su chi oggi cerca di rimuovere quegli eventi drammatici, fingendo di ignorare quanti europei, italiani compresi, si sono resi complici del nazifascismo denunciando esseri umani innocenti o anche solo voltandosi dall’altra parte o facendo finta di non sapere. Opera di finzione ma con una forte aderenza alla verità storica, La chiave di Sara, è un bellissimo film che appassiona, coinvolge e che, soprattutto, merita di essere visto. Straordinaria Kristin Scott Thomas, che nella versione originale dei dialoghi americani da prova di sapersi esprimere con un ottimo accento newyorkese. Per questo film, la Thomas ha ricevuto la candidatura come miglior attrice ai Cesar, gli Oscar francesi. Il titolo originale del libro e del film (Elle s'appelait Sarah) si rifà alla canzone “Comme toi” composta da Jean-Jacques Goldman nel 1982 (Elle s’appelait Sarah/ Elle n’avait pas huit ans./ Sa vie, c’était douceur,/ Rêves et nuages blancs./ Mais d’autres gens en avaient décidé autrement. Si chiamava Sarah,/ non aveva otto anni./ La sua vita era dolcezza,/ sogni e nuvole bianche./ Ma altre persone avevano deciso diversamente.)


Parigi. 16 luglio 1942. Durante l’occupazione nazista tredicimila ebrei, rifugiati da ogni parte d’Europa, vengo strappati dalle loro abitazioni dalla gendarmeria francese, su ordine del governatore tedesco, ammassati all’interno del Velodromo d’Inverno e quindi avviati ai campi di transito. Destinazione Auschwitz e Birkenau. Tra questi Sarah Starzynski, una bambina di 10 anni ed i suoi genitori. Parigi. 2009. Julia Jarmond, giornalista americana, moglie di un architetto parigino, visitando un appartamento da affittare nel Marais si imbatte nella vicenda di Sarah e decide di indagare su quegli avvenimenti per scrivere un articolo sul destino di migliaia di persone che furono deportate e morirono nei campi di sterminio nazisti. Dopo il successo internazionale del romanzo omonimo di Tatiana de Rosnay il giovane regista Gilles Paquet-Brenner ha voluto affrontare uno degli episodi più infamanti della collaborazione del governo di Petain con l’autorità militare nazista. A distanza di più di sessanta anni i francesi che hanno vissuto quegli avvenimenti cercano di nascondere il complesso di colpa per una macchia vergognosa. La pellicola procede su binari tematici e temporali diversi, visivamente differenziati nella fotografia: nitida e profonda quella che descrive il presente, sbiadita e opaca quella che racconta la storia di Sarah.


Le immagini che descrivono la violenza dei responsabili del rastrellamento, la disperazione degli arrestati, lo stupore delle donne e dei bambini inconsapevoli sono impressionanti, come pure quelle all’interno del Velodromo o quelle della separazione dei genitori dai bambini nel campo di raccolta . Attraverso le domande ai suoi giovani colleghi la giornalista scopre che nessuno sa niente o ha mai sentito parlare del Vél d’Hiv. Non ci sono fotografie delle tredicimila persone ammassate per giorni, uomini, donne, vecchi, malati e bambini, in un impianto cadente, senza cibo e senza acqua. Non esistono documenti e articoli di giornali di quei giorni che riguardino quegli eventi. Anche il vecchio suocero che per anni ha vissuto nell’appartamento è reticente e solo dietro alcune insistenze racconta quello che avrebbe voluto dimenticare. La vicenda della bambina, diventata donna, che pur avendo vissuto una parte della tragedia di un popolo, non ha conosciuto l’orrore della deportazione e dei campi di sterminio senza essere riuscita ad accettare la “colpa” di essere sopravissuta, non sempre trova il giusto raccordo con le vicende di Julia che faticosamente acquisisce consapevolezza e sicurezza del proprio ruolo di madre e di giornalista. L’ombra terribile dell’Olocausto si attenua e sfuma nei sensi di colpa dei testimoni viventi. A confronto con altri film che trattano il tema della Shoah, tra i quali spicca il coraggioso “Vento di primavera” di R. Bosch che, drammaticamente e poeticamente, ha strappato il velo che copriva la coscienza dei francesi (e degli europei), “La chiave di Sarah”, nell’intento di rimanere fedele al racconto di Tatiana de Rosnay , si allontana dagli eventi che seguirono al rastrellamento del luglio 1942, per seguire i problemi esistenziali e di coscienza di Julia, che viene coinvolta più dal destino di una singola persona che da quello di milioni di innocenti.


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