LA VARIABILE UMANA

Recensione del 10 gennaio 2020 di Stefano

Regia: Bruno Oliviero - Italia 2013

Di questi tempi, i documentari guardano sempre più ai film di finzione, e parallelamente molti registi di non-fiction decidono di passare alla fiction. (Ma, d'altronde, chi siamo noi per stabilire cosa sia, o no, "finzione"? La recente consegna del Leone d'oro a Sacro GRA demolisce ancora una volta l'apparente barriera che dovrebbe separare queste due forme di cinema). Bruno Oliviero appartiene alla seconda categoria: dopo aver operato per almeno dieci anni nelle file del "doc", ha deciso di prendersi una svolta. Stavolta di cast vero e proprio si parla, e che cast: Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Sandra Ceccarelli


Se volessimo definire questo suo nuovo film con una sola parola, quella sarebbe "etereo". La variabile umana accarezza lievemente lo spettatore, lo culla con una regia geometrica e delicata, gli regala immagini curate, dotate di una fotografia dove predomina il bianco delle luci al neon, facendolo quasi affogare in un bagno di latte. Ma sotto la bella apparenza, niente. È proprio la vacuità la principale caratteristica di questo film, e ciò ci atterra non poco. Se tutta l'ambizione di Oliviero si concentrava nel riversare i tempi morti tipici del documentario in quest'opera, si è lasciato un po' sfuggire la mano. Perché all'ennesima carrellata sul volto sofferente (eppure così inespressivo) di Orlando, non proviamo proprio il benché minimo senso di compassione per lui. Anzi, è la freddezza e il distacco a fare da padroni. Merito forse dell'evidente impaccio del regista a controllare gli attori, che appaiono tutti piatti, senza infamia ma proprio senza lode.


Le uniche spezie di questo piatto sono qualche elemento sicuramente orgoglioso del proprio impegno sociale (il ricco imprenditore che aveva rapporti con "ragazzine") e qualche frase lapidaria sulla decadenza di una città come Milano (sarà un caso che lungo l'angolo di un palazzo scorrono delle scritte incredibilmente simili a "Charles Foster Kane is dead" in Quarto potere?). Peccato che tutto sembra buttato lì alla buona, solo per rinvigorire un po' un'architettura debole. Infatti il colpo di scena che appare verso la fine è prevedibile quanto in ben pochi altri noir. Ma certo curare la trama non era importante, dato che sarebbe stata poi pesantemente diluita attraverso centinaia di inquadrature "belle" quanto poco utili. Sembra che il regista si sia dimenticato che questo tipo di vaghezza sia stata la cifra stilistica di numerosi Autori prima di lui (uno per tutti: Antonioni).


Quindi basta, la minestrina è fredda e noi chiediamo indietro il conto. Per molte persone questo sarà il tipico film che non gli ha toccati particolarmente ma del quale non si possono neanche dire delusi. Secondo chi scrive è proprio questa mediocritas, questo stare nel mezzo (per accontentare un po' tutti?), questo non voler osare (e magari provocare), ad essere il male di molto cinema contemporaneo, soprattutto italiano. Stefano


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