Recensione del 3 gennaio 2020 di Daniele Portaleone
Cosa hanno in comune gli adolescenti di un quartiere difficile della banlieu parigina e i bambini e gli adolescenti vittime dell’Olocausto? Il film francese “Una volta nella vita”, raccontando una vicenda realmente accaduta, risponde senza pietismi e falsificazioni a questa domanda, fornendoci risposte su problemi molto attuali quali l’integrazione dei nuovi immigrati, la solidarietà, la condivisione e la formazione di nuovi cittadini, liberi da pregiudizi e da condizionamenti.
Ahmed Dramé, un ragazzo nero di sedici anni, figlio di un’immigrata del Mali, nel 2009 frequenta il liceo Léon Blum, a Créteil, sobborgo nella zona sud-est di Parigi. La sua classe è composta da un gruppo eterogeneo di ragazzi, per la maggior parte figli di immigrati, adolescenti litigiosi, arroganti e indisciplinati, che crea problemi al corpo insegnante e al preside. Solo la professoressa di storia e geografia, Anne Gueguen, è in grado di controllare il gruppo e di farsi ascoltare dai ragazzi. Capisce che quella classe ribelle ha delle potenzialità. Propone ai ragazzi di partecipare ad un concorso nazionale sulla Resistenza e la Deportazione. L’adesione è volontaria, il tema difficile:”I bambini e gli adolescenti ebrei nel sistema concentrazionario nazista”. Dapprima gli allievi rifiutano ma dopo qualche esitazione tutti decidono di partecipare. Inizia per l’insegnante e per i suoi studenti un percorso accidentato e coinvolgente. Quei ragazzi divisi e difficili diventano un gruppo, si appassionano alle tragiche vicende della storia, scoprono un passato sconvolgente e giungono alle fasi finali del concorso.
Ahmed, profondamente sensibilizzato da questa esperienza, scrive una sceneggiatura e la invia alla regista Marie-Castille Mention-Schaar. Dalla sceneggiatura negli anni seguenti nasce il film con la collaborazione di Ahmed che ne diventa anche uno degli interpreti principali. Due sono i temi che si intrecciano nel film, la passione e l’energia necessarie agli insegnanti che operano nelle realtà scolatiche attuali, particolarmente difficili nelle periferie delle grandi concentrazioni urbane, e la difesa della memoria, in un mondo che sembra aver dimenticato l’orrore del genocidio e dove la violenza fisica e verbale, l’intolleranza e l’odio razziale ritornano a produrre i loro frutti avvelenati. Il rischio per la regista era di dover reggere il confronto con il bel film di Laurent Cantet, “La classe”, Palma d’oro a Cannes nel 2009, modello di tutta una serie di film sul mondo degli adolescenti e della scuola. Là si trattava di una guerra di parole fra il professore e gli allievi, una sfida continua per avere l’ultima parola tra l’arroganza dai ragazzi e l’autorità dell’insegnante, tra il pregiudizio e la razionalità. Qui la professoressa sa che deve mantenere il controllo e il rispetto degli alunni e parlando di diritti ma soprattutto di doveri riesce a coinvolgere una scolaresca riottosa in un progetto difficile che sembra destinato al fallimento. Quando, durante la visita al Museo dell’Olocausto le ragazze, di fronte alle immagini sconvolgenti e ai volti di bambini e adolescenti vittime dello sterminio, dicono che hanno deciso di fermarsi, rimandando un altro impegno, la professoressa sa che la battaglia non è ancora vinta ma qualcosa sta cambiando. C’è un momento preciso che conferma il successo del progetto e la riuscita del film, raggiungendo il livello più alto di coinvolgimento dei ragazzi-attori e del pubblico: è il momento in cui un ex deportato, Léon Ziguel, racconta la sua terribile esperienza, esorta i ragazzi a continuare nella loro ricerca e legge per loro il giuramento dei sopravissuti di Buchenwald. Daniele Portaleone
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